Vita offesa
La dignità è un'idea complessa, che tuttavia sentiamo come immanente, dentro di noi.
Salvatore Natoli, filosofo e accademico, esprime il concetto di "vita offesa", "il sentimento di malessere che ci prende ogni qualvolta constatiamo come gli uomini siano umiliati, come la vita sia irrisa senza ragione". Gli atti di violenza gratuita creano attorno a noi un'atmosfera di degrado, perché, seppur possa sembrare che non ci coinvolgano direttamente, di fronte a crudeltà senza ragione ci sentiamo tutti, in qualche modo, indifesi.
Già Aristotele trattava di questi argomenti. Nel libro II della “Retorica”, egli denomina come "mancanza di riguardo" azioni quali il maltrattamento, il disprezzo e l'oltraggio e le giudica come "effetto di un'opinione concernente una cosa che sembra degna di nulla". Si potrebbe quindi dire che la violenza gratuita sia un sottogenere della violenza, nata dal disprezzo del proprio nemico/rivale.
E il disprezzo nasce fondamentalmente da due motivazioni: o perché ci si sente superiori, a tal punto da sentire necessario ridurre gli altri a meno di nemici, a meno di umani, per farsi valere; o perché non si considera niente e nessuno degno di valore o ammirazione. Ma in altri casi, questa irrazionale violenza è semplicemente un angosciante gioco tra vinti, un'illusoria esaltazione. Incapaci di rispettare, perché incapaci di apprezzare, l'unico piacere lo si trova nel farsi valere.
Nel mondo, questa violenza è fin troppo praticata, ha segnato e continua a segnare la nostra storia. Ogni giorno ne siamo testimoni, e quando questi atti diventano sistematici e legittimati da governi totalitari o pseudo-democratici si hanno tragedie come quelle del periodo nazi-fascista. Per quanto sia doloroso, non dobbiamo dimenticarci che germi di questa stessa violenza brutale sono ancora vivi. Il compito che si sono poste le società moderne è quello di sradicare e prevenire altri eventi di questo genere, puntando allo sviluppo globale di ogni individuo per la comunità, in primis attraverso la stesura di Costituzioni democratiche - nel caso dell'Italia – entrata in vigore il 27 Dicembre 1947, sotto la presidenza di Enrico De Nicola. Un documento che oggi per noi non rappresenta una grande novità, ma che pone invece le fondamenta della società in cui viviamo. Gli articoli che la compongono sono stati scritti prestando attenzione ad ogni singola parola, affinché questi potessero essere l’espressione universale di una convivenza armoniosa tra tutti i cittadini, sia memori degli eventi passati, sia con la necessità di stilare leggi che rappresentino ideali eterni.
Il peso di queste parole può essere visto in diversi articoli:
Art. 2
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”
La Repubblica, in quanto organo superiore ai cittadini, deve innanzitutto riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, passaggio che potrebbe essere scontato, ma che è necessario per fare in modo che possiamo essere tutelati di principio come esseri umani, non solo come cittadini.
Ma è straordinariamente significativo che si parli di “dell’uomo” non solo di cittadini: il rispetto deve riguardare tutti, non solo gli Italiani
Art. 6
“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.”
Viene utilizzato il verbo “tutelare” perché lo Stato ha il compito di valorizzare le differenze, non mettendole a confronto, bensì creando una società armoniosa, non priva di sfaccettature.
Art. 10
“L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.”
La Costituzione italiana non è una carta che tutela solo i cittadini italiani: essendo infatti fondata su concetti che garantiscono universalmente la libertà agli uomini, si impegna per garantire una giusta esistenza a tutti.
Art. 3
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Vengono introdotti con queste parole i due concetti di uguaglianza formale e sostanziale: il primo è racchiuso nella frase “eguali davanti alla legge” che indica come, sulla carta, tutti i cittadini abbiano pari diritti e doveri. L’uguaglianza sostanziale. invece, consiste nel riconoscere pari dignità a tutti i cittadini nei quotidiani rapporti umani.
Il compito della Repubblica non è di per sé quello di aiutare il singolo, perché così si favorirebbe solamente la disparità. Essa invece si impegna a spianare la strada di ogni cittadino per il suo sviluppo individuale e in società, in modo che ognuno possa prendere, allo stesso modo, parte alla vita dello Stato e abbia la libertà di realizzarsi come persona a seconda dei suoi interessi.
E' infatti compito dello Stato tutelare la piena libertà dei propri cittadini, senza che essi siano oppressi dalle mille disparità che un mondo ottuso continua a vedere; ogni forma di razzismo e discriminazione deve essere abolita, per far sentire al sicuro ogni cittadino, che semplicemente, così com'è, vive. La vita non dovrà mai essere un lusso di cui una qualche maggioranza esclusiva si appropria, ma deve essere per tutti priva di vincoli oppressivi di qualsivoglia tipo.
Affinché la società funzioni a dovere, devono essere applicati con metodo due concetti molto importanti: l’uguaglianza e l’equità; l’uguaglianza viene posta quando si è davanti alla legge, poiché riconosce la “pari dignità” degli individui, tuttavia lo Stato deve riconoscere che le persone, di fatto, non sono uguali. Per favorire un’uguaglianza anche sostanziale, di fronte alla disparità delle condizioni materiali, è necessario un piano d’azione equo, che sostenga in “positivo” chi vive in condizioni di disagio, come specificato nel secondo comma dell’articolo 3. Si giustifica così una serie di trattamenti “di favore” che, sulla base del principio dell’uguaglianza formale presentato nel primo comma, potrebbe essere considerata erroneamente illegittima.
Come già sostenuto da Carlo Rosselli, intellettuale e politico antifascista
“la libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dall’emancipazione del morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma”.
È quindi necessario, per ottenere lo sviluppo di ogni individuo, tener conto delle sue differenze rispetto agli altri; l’uguaglianza e l'equità sono allora indispensabili per comprendere, ma soprattutto preservare, la diversità dell’uomo, limitando le ingiustizie.
La dignità, nei secoli passati e così oggi, ruota intorno al fondamentale ruolo del rispetto, che gli uomini esercitano o potrebbero esercitare perché membri di una società e perché guidati da principi di fondo.
In un tempo come quello di Seneca, in cui era la società stessa ad emarginare gli schiavi, non era allora intrinseco nel pensiero degli uomini il senso del disprezzo come noi lo intendiamo, poiché la 'norma', la regola sociale, voleva che persone come gli schiavi non fossero riconosciute come uomini.
Solo un filosofo profondo come Seneca, nelle sue “Epistulae ad Lucilium,” poteva scrivere “Servi sunt, immo homines” condannando comportamenti disumani nei loro confronti, di fatto umili amici sfortunati. Ovviamente il messaggio di Seneca non comporta un rovesciamento di prospettive che richiederà ancora secoli (abolizione della schiavitù), ma è il segno di come il rispetto dell’altro possa essere connaturato all’uomo, se solo agisce con desiderio di rispettare la natura umana comune a tutti.
Creando allora norme giuridiche che possano tutelare chi era stato discriminato, è emersa sempre più la necessità di dare vita a una società paritaria, dove la libertà non sia più un diritto di pochi.
Ma la storia è ripetitiva e appena il più crudele degli istinti di sopraffazione prevale, l’orizzonte assoluto non è più quello di libertà come insieme di scelte operative coscienti, ma come possibilità di prevaricazione sul più debole o altro da noi.
“Se questo è un uomo” di Primo Levi è testimonianza in prima persona di come quanto più un uomo sia crudele e potente, tanto più un altro divenga oggetto di vessazioni e torture inaccettabili.
Un uomo può perdere tutto e rimanere se stesso, perdere pezzi della sua storia e rimanere in piedi, può perdere casa e vestiti ma mantenere i ricordi, tuttavia, perdendo gli affetti perde se stesso, perdendo la dignità perde la vita:
“si immagini ora un uomo a cui insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso,” scrive Levi.
È indicibile la sofferenza che si può provare nel non ritrovarsi più, nell'aver perso pure il proprio nome. Per chi ha tutto, è difficile comprendere come sarebbe vivere senza se stessi, essere non tra i salvati ma tra i sommersi.
Qual è il senso di vivere se siamo nella metà condannata? E come possiamo vivere se siamo nella metà fortunata?
Non possiamo tenere in piedi una realtà che condanna, che toglie la vita a chi si è sacrificato per costruirsela, o che, solamente, aveva accettato, a stento, di vivere, senza onori e gloria: ogni vita è preziosa in quanto tale. Non solo venendo uccise le persone muoiono, ma anche perdendo se stesse.
La storia insegna che la società non si è mai ripulita della sua colpa originaria di dividere il mondo in classi e di condannarne le più povere, di porre nelle mani di pochi potenti la possibilità di scegliere chi opprimere. Le violenze, l'approfittarsi, l'uccidere sono colpe di cui ancora ci si sporca le mani, atrocità che purtroppo continuano ad esistere. Anche se nel mondo siamo tutti uomini uguali, con diritti paritari e leggi che ci cuciamo addosso per difenderci e tutelarci, c'è ancora chi riesce a privare alcuni della dignità, e chi, la dignità, una volta sopravvissuto, non riesce a ritrovarla.
Siamo tutti coinvolti in questa lotta che, per essere efficiente, deve essere mossa da una volontà sincera, non un semplice “obbedire alle regole,” cosa che fa perdere la parte genuinamente umana della dignità: regole potrebbero essere quelle che legalizzano rastrellamenti, delegittimazioni, reclusioni in campi di lavoro.
Lo studio della propria cultura e della storia ci aiuta a riconoscere la violenza e a capire le motivazioni che hanno portato alla stesura della stessa Costituzione; motivazioni che però non sono state cancellate da un testo che elenca diritti, perché l'orrore è ancora là fuori, la presunzione di essere più importanti di altri miete ancora troppe vittime, opprime ancora troppe persone, e non siamo noi più liberi di loro, perché, circondati dalle nostre comodità, celebriamo tante feste della liberazione, fingendo di credere che il mondo sia stato liberato il 25 Aprile 1945 da ogni male.