Per gli studenti

Da circa un anno gli studenti sono alle prese con DAD (didattica a distanza) e DDI (didattica
digitale integrata), due sigle divenute ormai un tormentone e di cui forse non si sanno sempre
cogliere con chiarezza e funzionalità fini, obiettivi, metodologie. Ciò che è sicuramente chiaro e
ripetuto sono le lamentele legate all’emergere di svariati problemi: la connettività a volte scadente o
assente, la difficoltà di conciliare lo smartlearning dei figli con lo smartworking dei genitori,
soprattutto nelle case con più ragazzi studenti, i dubbi sulle modalità di valutazione e poi la
crescente consapevolezza dell’aumento delle disuguaglianze dovuto alla scarsa capacità di assistere
e di stimolare gli alunni da parte delle famiglie più disagiate dal punto di vista socio-economico.
Le scuole più tecnologiche e innovative, ovviamente, hanno subito previsto corsi di formazione a
tappeto per insegnanti, know-how organizzativo sulla ridefinizione degli spazi e dei tempi in vista
della ripresa della didattica in presenza da integrare con quella a distanza, opportunamente
trasformata in DDI. La risposta più lungimirante da parte del Ministero dell’Istruzione, quindi,
avrebbe dovuto essere, oltre alla sollecitazione di quanto progettato tempestivamente da scuole più
illuminate e virtuose, almeno la fornitura agli istituti, ma anche alle famiglie e agli stessi studenti, di
adeguate attrezzature tecnologiche e devices.
Al di là di oggettivi problemi contingenti, tuttavia, credo che il generale sforzo dei docenti (sia
lavorando a distanza in maniera più o meno tradizionale, sia impegnandosi ad utilizzare le
specifiche metodologie della didattica integrata, molto efficaci per l’apprendimento e da non
abbandonare certo neppure quando si ritornerà alla “normalità”) sia stato quello di essere sempre e
soprattutto educatori.
L’educatore è ambasciatore di possibilità, promotore della facoltà del giovane
di protendersi oltre la condizione attuale biopsicologica e sociale.
Ha il compito di schiudere possibilità come superamento e liberazione dai condizionamenti, di leggere i bisogni esistentivi della classe di cui si prende cura, per offrire situazioni esperienziali che consentano di nutrire la tensione cognitiva, etica, estetica, sociale e spirituale dell’essere di ciascuno.
Tutte riflessioni ovvie, ma che tengo a riproporre ai nostri ragazzi perché possano sapere cogliere
dal tempo presente il meglio e non ne sprechino troppo in lagnanze non sempre dovute a
insormontabili problemi: quelli veri li stanno vivendo invece studenti di altri paesi non lontani,
privati del diritto di parola e di dissenso, a noi garantito dall’articolo 21 della nostra Costituzione.
Si dia un’occhiata agli annali recenti.
In Turchia non si ferma l'escalation di violenze che dal primo gennaio 2021 vedono opposte le forze
dell'ordine e migliaia di studenti e docenti universitari, dopo le prime proteste scoppiate in seguito
alla nomina di un Rettore fiduciario, vicino al partito del Presidente turco Erdogan, nell'Università del Bosforo di Istanbul, Melih Bulu.
In carcere in Egitto, perché reputato un dissidente, è Patrick Zaki. Tornato in patria per una vacanza,
non è più riuscito a rientrare a Bologna, dove studia, ma è stato prelevato in aeroporto, incarcerato e
torturato per ore dalla polizia del Cairo. Zaki fa parte della generazione Erasmus, comprensiva di
moltissimi ragazzi curiosi di capire il mondo, di andare in profondità, di scoprire la complessità
delle cose. Studia questioni di genere, si occupa di diritti delle donne e di tematiche LGBT. Per
questo, e solo per questo, il governo egiziano lo reputa una minaccia.
E non dimentichiamo Giulio Regeni, il dottorando italiano dell'Università di Cambridge, rapito il 25 gennaio 2016 e ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo nelle vicinanze di una prigione dei
servizi segreti egiziani, dopo avere subito torture, ben evidenti sul suo corpo. E se si desiderano
maggiori delucidazioni sull’efficienza dei servizi egiziani e non solo, basta leggere l’ultimo scritto
autobiografico, toccante quanto amaro, di Hisham Matar “Il ritorno. Padri, figli e la terra fra di
loro.”
Icona di dissidenza è l’attivista russo Navalny, di cui tutti conosciamo la tragica vicenda avvenuta
nel borgo di violenza che è il regime putiniano.
C’è una ragione se gli Stati totalitari considerano pericolose e sovversive le figure outsider, le
attività scolastiche non irreggimentate e soprattutto le discipline umanistiche che cercano di
eliminare a ogni costo o di controllare attraverso estenuanti azioni di censura: sanno quali siano i
pericoli dell’indagine libera e autentica!
La loro paura delle società democratiche e l’ostilità con cui le trattano non dipendono tanto dal potere militare quanto dalla cultura e da tutti i problemi che questa può causare.
Paradossalmente, riconoscono il valore di ciò che noi scartiamo e svalutiamo sempre di più: leggere, discutere, divenire dotati di competenze di cittadinanza attraverso potenti strumenti cognitivi e culturali con cui è possibile dare un senso alle azioni e alle intenzioni umane, ma anche costruire e esplorare mondi possibili, negoziare il nostro ruolo sociale e la nostra identità.
Per questo esistono teste pensanti, “ben fatte” e non solo o tanto” ben piene”, che si sono opposte e
che si oppongono ancora a regimi che vorre
bbero trasformarci tutti in marionette pilotate.
Blaga Dimitrova, poetessa dissidente, sopravvissuta a tante persecuzioni del regime sovietico bulgaro, scrive “nessuna paura di essere calpestata. Calpestata, l’erba, diventa sentiero”:
ogni scelta comporta responsabilità, ma una scelta, la più dura, anche se non viene riconosciuta, vale, esiste, lascia traccia, traccia di autentico, di gratuito, di sentito.
Le proteste degli studenti di queste settimane mi hanno infatti fatto ripensare alla nota immagine
dello studente americano di origini italiane Mario Savio, nel lontano 1964, nel campus
dell’università californiana di Berkeley, in piedi sul tetto dell’auto della polizia, mentre parla a
centinaia di studenti: quel giorno Jack Weinberg, intimo amico di Mario, studente e membro
attivo del CORE, un gruppo politico che si batteva per il diritto al voto dei neri negli Stati
segregati del Sud, viene ammanettato e chiuso in una volante con la forza da alcuni poliziotti
chiamati a sorvegliare il campus. La sua unica colpa è quella di aver allestito un banchetto
pieno di libri che intendeva condividere con gli altri studenti. Mario ha ben chiara la visione
del rettore Kerr dell’università come “una fabbrica che possa riempire le teste vuote, per farle
lavorare per il sistema”. Le parole di netta contrapposizione di Mario esprimono allora
aspirazione a liberare “noi esseri umani, che non siamo materie prime da trasformare in prodotti,
che non vogliamo essere comprati dai padroni delle università, governi o industrie”.
Il suo dire fa riacquistare al termine scuola il suo valore etimologico: tempo libero.
Scuola come dono ai ragazzi di tempo perché possano formarsi, crescere al di fuori dei circuiti produttivi e economici (anche in DAD, ma con le appropriate e efficaci metodologie, coinvolgenti e motivanti), comprendendo con Heinz von Foerster che
“libertà è vedere nella foresta dei vincoli gli alberi delle scelte”.
I vincoli sono spesso quelli che la società dell’apparire e della reificazione economica di ogni rapporto tenta di imporre in una foresta i cui sentieri sono il campo delle possibilità, su cui esercitare la nostra individualità e le nostre scelte responsabili.
E allora, ragazzi, approfittate del tempo-scuola, che le circostanze attuali impongono di vivere in
maniera non sempre ottimale, ma comunque indispensabile per combattere forme di oscurantismo
sempre dietro l’angolo, icasticamente rese dai vari scrittori di distopie del secolo scorso, veri
profeti.
Il professor Faber, capo dei ribelli uomini-libro di “Fahrenheit 451”, rischia la vita per salvare opere
dai dissennati falò in cui vengono gettati i volumi perché
“i libri hanno sostanza, […] Perché i libri sono odiati e temuti? Rivelano i pori sulla faccia della vita.”